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martedì 20 settembre 2011

Uno


I fiori. L’altare. Sono contento. Sto sudando. Sono le 12 e 40 e il fotografo ha appena finito il suo solito giro di fotografie: allo specchio, mentre infilo i gemelli dorati nelle asole; con i fiori, con mio fratello e con mio padre, che non riesce a distinguere tra il flash e la luce di fuori. Con un amico, il collega di tanti anni di studio, e il fratello di tante scorribande, Luigi, lui, che mi ha salvato all’età di 25 anni tirando il freno a mano su quella tangenziale verso Milazzo, evitando lo schianto verso il muro: è anche il mio angelo. Non riesco ad indossare la giacca e la cravatta che mi sta un po’ stretta: chiedo l’aiuto di zia Antonia, che con le sue docili movenze femminili, mi allenta il nodo e anche l’ansia di un evento che cambierà la mia vita.



Il mio nome è Corrado. Nasco a Messina nell’epoca in cui nelle balere ci si innamorava e si girava in città con la vespa. La mia famiglia, benestante, gode di buona fama come produttori di vino, di cui io sono l’amministratore aziendale. Alessandro è mio fratello, più piccolo di sette anni, laureato in ingegneria, presto partirà come volontario nei Carabinieri, e questi sono gli ultimi giorni che mi godo con lui. Mio padre Saverio è un uomo a cui ormai gli resta poco da vivere. La morte di nostra madre Anna lo ha colpito, fino a fargli perdere la vista, non riuscendo più a distinguere tra giorno o notte. Trascorre le sue giornate ai campi, testando sotto i suoi polpastrelli la qualità dell’uva, assaporandone il gusto e ascoltando il vento tra le fronde. Oggi mi sposo. E sono felice. Vincenza è una giovane donna, che, fin troppo presto, si innamorò di me, ed io di lei. Dopo un anno abbiamo deciso di sposarci, così finalmente non sarò costretta a dividerla con nessuno.



Era Maggio. Si mangiavano le ciliegie. E tra gli operai del campo che lavoravano, decisi di fare una passeggiata presso il mulino oltre la montagna, luogo in cui spesso i ragazzi si fermavano a fumare. A differenza del solito vidi due amanti, rossi dalla passione, scambiarsi effusioni. Estremamente vergognato entrai presso il casale lì vicino. Era un casale antico: si diceva che fosse una delle proprietà dei Borboni, e che al momento dell’Unità fosse passato sotto il podere della famiglia Boccasanti, che decise di acquistarlo dopo aver venduto tutti i puledri della tenuta precedente. Divenne un monumento dell’Italia pre-Unitaria e tappa di pellegrinaggio di molti turisti, che lì potevano anche dormire. Giunto in questo casale, chiesi un bicchiere d’acqua: faceva caldo e mi sentivo stanco.

-          Corrà! Tutto bene??- mi chiese la madama

-          Si si, mi sento solo un po’ stanco, donna Mariella, me lo dai sto bicchiere d’acqua?- stavo cominciando ad impallidire

-          Oè, oè, stai calmo però, te lo porto subito, mettiti seduto!-



Mi fece accomodare sul divanetto, sul quale, si diceva, si fosse seduto l’ultimo grande erede dei Borboni. Mi tolsi le scarpe, e mi buttai come peso morto. Appena arrivò la madama, mi trovò svenuto. Non ricordo nulla o poco più di ciò di quanto vi ho detto, ma al mio risveglio mi ritrovai in un trionfo di profumi di limoni e rosmarino, e il dolce viso di Vincenza, che era lì ad attendere il risveglio. La stanza puzzava di vecchio, però, forse per convincere ancora meglio i turisti dell’austerità di quel luogo.

-          Cosa è successo?- domandai con gli occhi che mi giravano all’impazzata

-          Corrà! Oh santo cielo! La madonnuzza ha ascoltato le mie preghiere! Sei svenuto! Come una sarda salata sul divano borbonico!- la vestaglia bianca svolazzava leggera mossa dal vento che soffiava più forte dal balconcino di fronte il letto

-          Avevo voglia di una passeggiata fino al Mulino, ma questo caldo torrido mi ha sfiancato al traguardo! Vincenza, ti ringrazio, sto bene, ma devo andare.- mi sollevai immediatamente la testa dal cuscino, infilai le scarpe e guizzai, come un anguilla, fuori dalla stanza.

-          Ma non puoi andartene! Ancora il sole è alto! Rimani qui, ti preparo almeno qualcosa da mangiare- mi inseguì fino giù al portone, e strattonandomi per la camicia, che stava per strappare, mi rituffò all’entrata, inchiodandomi quegli occhioni blu contro i miei neri e senza espressione.

Fui costretto a fermarmi per il pranzo. Maccheroni alla norma, pane caldo casereccio e spiedini di maiale ripieni, devo dire, che mi misero davvero in sesto. Niente male questa Vincenza, ma si da il caso che quando parli con lei, non ci sia nessuno che l’accompagni. La ringrazio per il pranzo e riesco finalmente ad andare via.



Appena ritornai a casa, fu assodata la sberla di mio padre, che si chiese che fine avessi fatto e di quanto gli avessi fatto perdere denaro, visto che inviò dei contadini a cercarmi, i quali, pensarono bene, di farsi un pisolino presso i cipressi poco lontani dal campo. Spiegai l’accaduto, tra le grida e le mani per aria, e svolazzai in camera mia. Non facevo altro che pensare a Vincenza e a come sia riuscita a stare lì tutto il tempo, ferma, ad aspettare che mi svegliassi. I suoi capelli erano stupendi. Raccolti, in un tripudio di ricci che scappavano di qua e di là, le mani affusolate e il naso piccolo, la facevano sembrare una bambina. Dovevo incontrarla di nuovo. Lo dovevo fare, per capire effettivamente qualche altro suo particolare. È forte. Mi ha strattonato per bene prima del pranzo, ora che ci penso, mi ha fatto pure male alla spalla.



Mi addormentai come un sasso e un paio di giorni dopo la rividi, di nascosto. Raccoglieva le olive nel campo vicino al casale. La gonna era corta e lasciava intravedere i ginocchi, canticchiava, anche se il caldo le impediva i movimenti. Mi sentivo un codardo. Non ero stato capace di salutarla, anzi, peggio, la spiai, senza rivolgerle la parola, senza poter risentire quel dolce profumo di limoni e rosmarino.



Un mese dopo, le inviai una lettera, la invitai ad una festa, di un mio caro amico e collega, Luigi. Non si presentò. Ed io stetti tutto il tempo a bere, seduto in solitudine, non osai nemmeno fare gli auguri al mio fratello acquisito.

Un altro mese dopo arrivò una lettera. Vincenza si scusò per l’assenza, ma la giustificò scrivendo che non le era concesso uscire da sola, e che le avrebbe fatto però molto piacere vedermi al Mulino, per parlarmi personalmente. A questa lettera allegò una sua foto, vestita a festa accanto ad un comò ingiallito.



L’indomani al Mulino mi recai un’ora prima del previsto. Indossavo la camicia bianca di famiglia. I capelli, però, si appiccicavano al collo e facevo fatica a respirare. La vidi. Attraversava la strada tranquilla, con i capelli sciolti, tra il pizzo della camicetta e il nero della gonna un po’ a svasare.

-          Pensavo che non mi volessi più vedere- mi disse con un filo di voce

-          Assolutamente! Ho desiderato vederti, ma..- la mia voce all’improvviso si spezzò, non riuscii a dirle più neanche una parola

-          Lo so, Corrà, lo so. Sono scappata dalla Chiesa per parlarti. Però non bastano le parole, non bastano, per capire ciò che gli occhi chiamano-



Rimasi attonito. Appoggiai la spalla al Mulino, voltai gli occhi verso di lei e di nuovo il suo sguardo ceruleo si incrociò terribilmente con il mio. Mi sentii mancare, ma la baciai e lei non si ritrasse, non ricevetti ceffone né calcio, ma si legò stretta alla mia vita, tanto che riuscii a sentire il suo cuore che batteva pazzamente come il mio.

Vincenza scandì da quel momento, tutta la mia vita, anche se i contrasti con i suoi genitori, non mancarono. Decisi di chiedere il permesso a suo padre di poterla sposare, e questi, senza esitare, me lo concesse.



E adesso eccomi qua. Oggi mi sposo.


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